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venerdì 1 luglio 2011

Renè Burri e il ritratto di Che Guevara.

René Burri (Zurigo, 9 aprile 1933) è un fotografo svizzero.

Prima della fotografia le sue passioni furono quelle della pittura e del cinema e fu per tale motivo e per migliorare le sue conoscenze che decise di frequentare la scuola d'arte di Zurigo dove ebbe l'opportunità di studiare composizione, pittura e disegno.

Finità la scuola cerca di dare seguito a questa passione tentando il mondo del cinema, ma le opportunità date dalla Svizzera in quel periodo erano davvero limitate, decide quindi di dedicarsi alla fotografia che molto si avvicina al mondo del cinema. Nel 1950, all'età di 17 anni entra quindi alla scuola di fotografia della sua città. Fu in questi anni che iniziò a lavorare come regista ed a realizzare i suoi primi documentari, contemporaneamente inizia ad usare la sua prima macchina fotografica, una Leica.

Nel 1955 il suo amico Werner Bischof lo avvicina, mettendolo in contatto con l'agenzia Magnum Photos dove presenta il suo reportage sulla realtà dei bambini sordomuti. Il reportage, con grande soddisfazione dello stesso Burri, venne pubblicato sulla prestigiosa rivista Life nonché su altre importanti riviste europee. Entrato a far parte dell scuderia di Magnum Photos inizia la sua intensa attività come fotografo di reportage in giro per il mondo per realizzare i lavori commissionati da Magnum. Questi furono gli anni in cui Burri si recò in Italia, Cecoslovacchia, Turchia, Egitto ed altri paesi.

Nel 1959 diventò membro Magnum. Pubblica il suo lavoro sulla Germania a cura di Robert Delpire e con l'introduzione di Jean Boudrillard. Realizza sempre negli anni sessanta altri importanti repotage. Sono da ricordare infatti quello del 1963 su Picasso e successivamente quelli su Giacometti e Le Corbusier. Sempre nel 1963 realizza il ritratto di Fidel Castro e di Che Guevara. Nella seconda metà degli anni sessanta e negli anni settanta lavorò in Egitto, Israele, Vietnam e Beirut. Nel 1982 diventa presidente della Magnum Photos. Nel 1991 venne nominato Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere dallo Stato Francese e nel 2004 venne realizzata una grande retrospettiva che nel 2005 è arrivata anche in Italia.



Renè Burri racconta del suo celebre ritratto di Che Guevara in un'intervista:

Signor Burri, sotto la giacca porta una Leica a tracolla. È sempre e dappertutto a caccia della foto perfetta?
René Burri: La foto perfetta è un mito. Ma la macchina fotografica è il mio terzo occhio. L'ho già chiamata anche la mia amante. È diventata una parte di me, alla stregua dello strumento favorito e indispensabile di un artigiano che diventa il prolungamento del suo braccio.

L'apparecchio fotografico sarebbe il prolungamento del suo occhio?
Anche del mio cervello. Un fotografo deve avere occhio per la composizione e senso del momento. L'occhio, il cuore e il cervello devono diventare uno dietro l'obiettivo.

Fotografi si nasce o si diventa?
Un certo talento non guasta. Io però ho avuto anche la grande fortuna di imparare da maestri eccezionali.

Si riferisce ai suoi studi presso la Scuola di belle arti a Zurigo?
Nella primavera del 1950 sono capitato nel corso di fotografia di Hans Finsler. Ho imparato molto da lui. Precisione, impiego della luce, disciplina. Una base solida, anche se ho dovuto soffrire.

Può spiegarsi meglio?
Finsler era un esponente della "Nuova Oggettività". Un uomo lucido, piuttosto freddo. Ci ha fatto scattare innumerevoli fotografie di uova. E di tazzine di caffè. Forma, ombre, composizione dell'immagine: dovevano emergere rigorosità e chiarezza. Io invece ero giovane e volevo abbattere le frontiere, andare a vedere al di là delle prossime montagne. Senza contare che gli esseri umani mi hanno sempre interessato più delle uova e delle tazzine di caffè. Accanto a Finsler mi hanno influenzato anche altri; penso a Henri Cartier-Bresson o a Werner Bischof.

Henri Cartier-Bresson è stato cofondatore della leggendaria agenzia fotografica Magnum. Non deve forse anche a lui il fatto di essere approdato alla Magnum ad appena 26 anni?
A lui e agli altri fotografi della Magnum: Werner Bischof, Frank Capa, David Seymour... Nel suo ruolo di insegnante, Henri Cartier-Bresson assume una posizione a parte. Era ossessionato dalla necessità, per la composizione, di riempire il formato. Quando gli veniva sottoposta una Finsler mi hanno influenzato anche altri; penso a Henri Cartier-Bresson o a Werner Bischof.

E quale sarebbe?
Mi interessano il prima e il dopo, l'apparentemente insignificante che accade in contemporanea con lo sconcertante. A volte uno sguardo dietro le quinte è assai più eloquente di uno scatto sensazionalistico.

Se guardiamo le sue foto sembrano esistere perlomeno due René Burri, forse anche tre: il fotografo di paesaggi dotato di un preciso senso delle proporzioni e dei giochi di luce, il fotoreporter che cattura la grandezza nelle piccole cose e il ritrattista di vip.
Mi auguro che di Burri ce ne siano più di tre. Non ho mai ambito a comporre una fotografia in modo da far esclamare all'osservatore: "Guarda, una tipica Burri!". Chi guarda una mia foto deve potersi concentrare su quello che c'è da vedere. Se così non fosse... Dio mio, sarebbe come interporsi tra l'osservatore e la foto. Riconosco che agli inizi della carriera questo mi ha creato non pochi problemi.

In che senso?
Ero stigmatizzato per non avere uno stile proprio, un'assenza che era considerata un difetto. Ma io non ci tenevo poi tanto ad avere uno stile mio; anzi, temevo che ciò mi limitasse e mi tarpasse le ali. Ero tremendamente curioso, volevo poter vedere, sperimentare, fotografare di tutto. Mi stavo occupando di qualcosa, e già cominciavo ad interessarmi di qualcosa di nuovo.

Sebbene si sia interessato a molte cose, nella sua opera possiamo evidenziare alcuni soggetti ricorrenti. Ad esempio il fascino per personaggi famosi come Picasso, Alberto Giacometti, Maria Callas o Le Corbusier.
È vero, mi è stato rinfacciato di essere avido di celebrità. Ma non è un appunto azzeccato. Non mi sono interessato alle celebrità per il semplice fatto che fossero tali. Era sempre l'essere umano ad affascinarmi. Quando nel 1953 vidi per la prima volta il dipinto di Pablo Picasso "Guernica", pensai subito: "Devo conoscere quest'uomo". Ma ci vollero ben quattro anni prima che ciò accadesse. Una felice coincidenza, anche se ho dovuto dare una spintarella al destino.

Come dice?
Le coincidenze non esistono, ma si possono coltivare.

Continuo a non capire.
Possiamo produrre circostanze favorevoli, ad esempio attraverso una forma di attesa attiva. Aspettare senza dare mostra di impazienza, con la convinzione che prima o poi l'evento atteso si concretizzerà. Occorre soltanto rimanere all'erta, per fare la cosa giusta al momento giusto. Ho bussato inutilmente alla porta di Picasso per anni. Poi ecco che un giorno, mentre mi trovavo a San Sebastián, venni a sapere che Picasso si sarebbe recato alla corrida di Nîmes. Corsi in albergo, feci le valigie e mi precipitai a Nîmes. Che sciocchezza, potremmo dire col senno di poi. Perché avrebbe dovuto essere più facile avvicinare Picasso a Nîmes che a Parigi? Eppure le circostanze me lo consentirono.

Incontrò Picasso per strada?
Ancora meglio: in albergo. Presi una camera nel primo hotel che trovai a Nîmes, lo stesso di Picasso, come mi resi subito conto. Era in camera sua, festeggiando con alcuni amici. La complicità di una cameriera mi permise di avvicinarlo: ecco come avvenne il mio primo incontro con Picasso.

Alcuni dei suoi scatti sono assurti a icone del XX secolo: penso alla foto con gli uomini sul tetto a terrazza di un grattacielo di São Paulo del 1960 o il ritratto di Che Guevara in gioventù, ripreso nel 1963 a Cuba. Sono anche queste coincidenze coltivate?
La foto di Ernesto Che Guevara è davvero fortuita. La devo alla giornalista statunitense Laura Bergquist che lavorava per "Look", all'epoca una delle più rinomate riviste al mondo. La Bergquist aveva scocciato Che con la richiesta di un'intervista finché questi finì per accettare. Quando ottenne dal Pentagono il nullaosta per l'intervista e il permesso di recarsi a Cuba, la sera di Capodanno dovette scovare in tutta fretta un fotografo.

Lei era in America e la poté accompagnare?
Niente affatto. Ero a Zurigo e mi preparavo per il veglione. Arrivò la telefonata. Come cittadino di un paese neutrale potevo recarmi a Cuba senza troppi intralci burocratici. Feci le valigie e partii per Cuba passando da Mosca.

La foto di Che Guevara lo ha reso ricco?
Non è stato così. Dovrei assoldare un esercito di avvocati per procedere contro le innumerevoli violazioni dei diritti d'autore. Senza contare che credo siano in pochi a sapere che quella foto è mia. Che fa ormai parte della nostra storia collettiva. E anche quella foto ha conquistato un posto fisso nelle nostre menti. La foto di Che non appartiene più soltanto a me. Per un fotografo, in fondo, questo è un gran bel complimento.